La vita agra


La vita nella filanda: sudore, bruciore e lavoro minorile nelle filande lombarde




La trattura è quell’operazione che permette di ricavare il filo di seta dal dipanamento dei bozzoli del baco da seta. Con questo termine, si indicano nell'industria tessile vari passaggi di lavorazione nella produzione del filato di seta, attività quotidianamente svolta durante la vita dei lavoratori della filanda.

Per ammollare la sericina e permettere alla bava di dipanarsi e ottenere il prezioso filato, storicamente era necessario mantenere la temperatura dell'acqua nella bacinella prossima ai 90 °C: questo ha sempre comportato per le operatrici il dover infilare le mani ripetutamente nell’acqua bollente.

Quello delle mani era il maggior tormento della vita in filanda, dove l'unico sollievo era costituito dal tenere le mani in una bacinella di acqua fredda per calmare il bruciore. Spesso le dita si coprivano di pustole molto dolorose: “l'acqua così calda (sulle) mani delle trattrici, per cui molto facilmente la pelle si ulcera producendo delle pustole, produce loro vari dolori. I rimedi che si possono utilizzare sono il vino, l'aceto e l’uva acerba, o di norma utilizzare la propria urina come lenitivo”.

Spesso il male “Inizia col solo arrossare delle dita, poi appaiono delle piccole pustole, bollicine o strisce biancastre, fintanto che la pelle si spezza in alcuni siti, specialmente nelle piegature e nelle divisioni delle dita, e lascia scoperta la carne, e allora i bruciori e il dolori crescono a dismisura: anche la piantaggine giova, oltre all' uva acerba”.

Il dottor Melchiori, chirurgo primario dell'ospedale di Novi Ligure nel suo trattato del 1845
“Osservazioni igieniche sulla trattura in Novi” annota “(..) l'indice della mano destra come quello che più si adopera nel portare le bave sotto la filiera e quello che più spesso è sede di patereccio flemmonoso, tendineo, periosteo con necrosi di falange” e di nuovo “In tutte le malattie delle mani delle trattrici nasce l’angioleucite al braccio, e ingorgo dei gangli linfatici all’ascella, che spesso suppurano”.

Si deve ricordare che l'acqua delle bacinelle oltre che calda era spesso orribilmente puzzolente: per facilitare l’ammollamento della sericina spesso si facevano putrefare dei piccoli animali morti nelle vasche di sedimentazione oppure veniva aggiunta all'acqua della crusca di segale ogni 100 ettolitri d'acqua, o ancora patate guaste che giovavano allo sciogliere le incrostazioni delle caldaie, o di nuovo far marcire paglia di segale sul fondo della vasca di sedimentazione per togliere la crudezza dell'acqua, oppure veniva fatta marcire della malva nelle vasche di decantazione.

Per evitare queste pene, ma soprattutto per eliminare la spesa per il riscaldamento dell'acqua che ammontava al 20% del totale della spesa di trattura manodopera compresa, molti avevano tentato la via della trattura freddo. Tra tutti gli esperimenti, spesso tenuti gelosamente segreti, quello più efficace risulta essere quello introdotto dal Castelli attraverso l'utilizzo di un bacile centrale alla filanda dove i bozzoli erano ammollati in acqua calda e poi celermente passati alle filatrici che ne traevano il filo in bacinelle a bassa temperatura. Per quanto questo sistema, brevettato nel 1795 e presentato come rivoluzionario fosse innovativo, pare non abbia avuto seguito considerevole.

Più tardi anche delle signore si cimentarono in questo campo: nel 1868 si ha notizia degli esperimenti delle signore Zamboni e Pelucchi, che grazie a loro metodo di filatura a freddo promettevano qualità, risparmio e soprattutto minore pene per le filatrici, ma nella generalità dei casi il metodo di filare in acqua calda si mantenne in Italia sostanzialmente sino alla seconda metà del Novecento.

Le filatrici avevano sempre a disposizione un secchiello di acqua fredda per immergervi le dita quando queste dolevano troppo, ma questo maneggiar di mestoli e palette, acque fredde dal secchio e calde dalla bacinella molto spesso corpetto e sottana delle filatrici finivano sempre per bagnarsi, che mescolati a vapore, sudore fumo e cenere completavano il quadro della pena quotidiana delle filatrici. Del resto, la pulizia e l'igiene non erano particolarmente praticate all'interno della vita nella filanda: il sudore abbondante al petto, alle ascelle e alle pareti addominali irritava la pelle escoriandola. Spesso la “nettezza delle parti coperte, che il basso popolo tanto schiva, trasandata nuoce e provocare in tali parti, e all'interno delle cosce, flogosi risipellacee, abrasioni e ulcere”.

In generale la vita nella filanda era estremamente dura: tradizionalmente il lavoro negli opifici era visto come una parentesi nella vita lavorativa delle donne, che spesso cessava con il matrimonio. Inoltre nella prima metà dell'Ottocento le filande lavoravano solo due o tre mesi all'anno e non nei giorni di pioggia perché la seta, in atmosfera troppo umida, tendeva ad incollarsi.

La mercede media delle operaie era di 0,99 lire al giorno, con un massimo di 1,25 lire è un minimo salariale di 0,70. Le bambine, largamente impiegate, erano pagate da 15 a 30 a 55 centesimi al giorno secondo età e capacità. Se fosse stato somministrato il vitto, il valore sarebbe stato trattenuto dalla paga.

Amara è la nota relativa ad alcune filande ed incannatoi della provincia di Milano: "qui le ragazze operaie negli stabilimenti lavorano dall'alba sino alle otto della sera con un'ora e mezza di riposo dal giugno al settembre, e con un'ora sola dal settembre in avanti”. Nell’incannatoio di Somma Lombardo lavoravano solo "fanciulle operaie, dalle cinque e mezza antimeridiane fino pronta notte, e con mezz'ora di riposo per la colazione ed un'ora e mezza del pranzo. ogni minestra, ove desiderata, era addebitata a otto centesimi”. Nei torcitoi i bambini erano la stragrande maggioranza: i dati raccolti dalla Camera di Commercio di Como riportano per il 1873 un totale di 37.000 operai di cui ben 19.000 al di sotto dei 16 anni: bambini sotto i 12 anni rappresentavano oltre il 20% degli operai.

Nel 1884 il Congresso Nazionale di Bacologia con voto unanime appoggiava la proposta del relatore Francesco Dubini affinché fosse "raccomandato al governo di interpellare nuovamente le Camere di Commercio e le associazioni seriche prima di dare forza di legge al progetto sul lavoro dei fanciulli … c'è pericolo che le famiglie operaie, già avvezze a fare assegnamento non piccolo sui guadagni dei propri bambini, private ad un tratto di questi, per quanto tenui, pur nella loro misera condizione presente, non disprezzabili mezzi di sussistenza, imprecheranno allo Stato, che, con l'apparenza di voler proteggere i deboli, nel fatto rende loro più stentata la vita”.

L'11 febbraio 1886 il progetto di legge fu approvato: promulgata il 18 Febbraio dello stesso anno la legge doveva essere esecutiva dal 18 agosto ma il regolamento "incontrando difficoltà nei Consigli di Stato” non uscì mai e la legge rimase lettera morta: ancora nella prime decadi del Novecento le bambine, legalmente o no, entravano in filanda a 9 anni.


Paolo Aquilini
Direttore del Museo della Seta di Como

Con il contributo di

Regione Lombardia
Indietro